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Astensionismo: primo partito italiano

MCL, Articoli e comunicati

Astensionismo: primo partito italiano

21/11/2017

Astensionismo: primo partito italiano

di Domenico Delle Foglie

Se l’astensionismo resta il primo partito italiano, è opportuno cominciare a porsi qualche domanda. Innanzitutto da parte delle forze politiche che si contenderanno la guida del Paese nelle elezioni di primavera, ma anche da parte di quanti, cittadini-elettori, dovranno decidere se e come partecipare al voto. Infatti l’astensionismo non è un solo un affare dei Palazzi ma riguarda ciascuno di noi, per quella porzione di volontà politica che ci è concessa dal sistema democratico che troppo spesso consideriamo un dato acquisito, ma che indeboliamo progressivamente con il non voto.

L’astensionismo confermatosi nelle recenti elezioni regionali siciliane e poi nel municipio di Ostia (con i suoi 240mila abitanti è al quattordicesimo posto fra le città italiane più popolose), non lascia dubbi. O almeno dovrebbe spingere tutti a interrogarsi su come riportare al voto quei quattro elettori italiani su dieci (con punte di oltre il 60% nei ballottaggi) che manifestano il proprio disagio tenendosi lontani dai seggi.

Intanto è utile ricordare che c’è un dato costante che accompagna la politica italiana dal 1994 ad oggi (data d’inizio dell’esplosione astensionista): la logica della promessa elettorale, ovvero dello scambio esplicito fra il leader politico di turno e gli elettori. Se Silvio Berlusconi ha giocato le sue carte vincenti sulla eliminazione della tassazione sulla prima casa, è indiscutibile che Matteo Renzi abbia usato spregiudicatamente l’arma economica degli 80 euro (poi ossessivamente replicata con i bonus più disparati), per giungere alla “promessa delle promesse” di Beppe Grillo e dei suoi pentastellati, ovvero il reddito di cittadinanza. Uno strumento universale dai costi esorbitanti che darebbe una spallata definitiva ai conti pubblici italiani, già precari a causa del debito pubblico che si aggira sui 2300 miliardi di euro.

In una recente intervista al quotidiano cattolico “Avvenire”, Luigi Di Maio, leader dei 5Stelle, ha candidamente affermato che “non c’è scampo: dobbiamo fare deficit e sforare la regola del 3 per cento. Per rimettere  in piedi il Paese e far ripartire l’economica e le famiglie servono investimenti e misure strutturali. Non ci dobbiamo far spaventare dal terrorismo del debito e del deficit, perché se continueremo ad aver paura resteremo succubi di un sistema che sino ad oggi ci ha fortemente penalizzato”. E ancora: “Da premier non voglio più ricevere condizioni o fare trattative sullo ‘zerovirgola’…”. E poi, giusto per offrire qualche cifra, il leader pentastellato arrischia: “Con il reddito di cittadinanza, in una famiglia in difficoltà con due figli di 14 anni entrano 1950 euro al mese. Lo ripeto: 1950 euro”. Se non si trattasse del quotidiano cattolico (purtroppo silente su questa enormità che rasenta le fake news), verrebbe voglia di ritagliare la pagina, di conservarla in un cassetto per poi tirarla fuori il giorno dopo un eventuale governo 5Stelle, per recarci in massa a Palazzo Chigi a incassare il dovuto.

Ma ciò che conta è chiedersi se tutte le forze politiche possano permettersi di continuare a fare promesse  elettorali, senza farsi carico delle conseguenze. Finanziare in deficit il reddito di cittadinanza, così come abolire la Legge Fornero, introdurre un maxi aumento pensionistico o detassare ancora e ancora, moltiplicare i bonus, sono tutte manovre pericolose. A nessuno viene in mente che promettere la luna può funzionare ancora una volta, ma poi la nuda realtà si riprenderà la scena e lascerà sul terreno promesse e disillusioni? Più che promesse occorrerebbero visioni. Immaginare di poter riconquistare al voto i 10 milioni di elettori che costituiscono l’esercito dell’astensionismo di opinione a suon di promesse elettorali, può costituire un ulteriore boomerang.  Mentre riavvicinare i cittadini alla politica dovrebbe essere la principale preoccupazione delle forze in campo. Se il centrosinistra sembra oggi il meno attrezzato a farlo a causa delle sue divisioni interne che gli alieneranno altri consensi, se i 5Stelle sembrano aver raschiato ormai il fondo dei consensi e appare davvero difficile che possano ottenerne altri sulla base di nuove fantasmagoriche promesse da mettere in campo nei prossimi mesi… Se tutto questo è vero… forse è proprio il centrodestra ad avere più possibilità di acquisire i voti in sonno e di giocarsi su basi numeriche più solide la sfida per il governo del Paese.  A condizione, però, che la sua vocazione moderata prevalga sulle spinte interne di matrice populista e sovranista. Si è detto mille volte, persino esagerando, che le elezioni si vincono al centro. Ma oggi è realistico supporre che l’esercito degli astensionisti d’opinione, non quello trasversale dei protestatari, sia posizionato proprio lì. Dunque, i moderati del centrodestra sono avvisati. A loro il compito di attrarre la quota più rilevante di astensionisti storici e di opinione.

E forse converrebbe, soprattutto a chi ha maggior radicamento popolare, rivisitare l’adagio in base al quale “votare è un diritto, ma non è più un dovere”. Tocca a tutti noi dimostrare, cattolici per primi, che questo è un tempo in cui votare sta tornando a essere un dovere civile.  

Domenico Delle Foglie

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